Dopo tanta attesa e un grande lavoro, con il decreto firmato il 1° luglio 2021 dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, il vitigno camaiola è stato iscritto al Registro nazionale delle varietà di uve da vino (pubblicazione in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 168 del 15/07/2021). Tale iscrizione ha premiato il grande sforzo del territorio telesino-titernino e supportato dal Sannio Consorzio Tutela Vini, organismo deputato ad inoltrare all’attenzione del Mipaaf il dossier che ha accompagnato la richiesta di iscrizione. Un grande successo per le vigne delle realtà territoriali che circondano Castelvenere, il “Comune più vitato del Sud”, che storicamente rappresenta la capitale enologica di questa varietà che per oltre un secolo è stata semanticamente confusa con il barbera piemontese.
Un secolo di confusione
La storia racconta che camaiola è il nome di un’uva – forse tra quelle più diffuse, sicuramente la più amata – coltivata nell’areale castelvenerese. Le tracce di questo nome si persero all’indomani della prima guerra mondiale, quando si iniziò a chiamare un vino prodotto in loco con il nome di Barbera. Questo nome si diffuse presto per una serie di circostanze. In realtà, il vitigno barbera originario del Monferrato – così come tante altre varietà, piemontesi e non – si diffusero ampiamente sul territorio telesino-titernino. A questo si deve aggiungere il fatto che nei decenni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento il vitigno barbera diventò quello più diffuso in tutta la Penisola, mentre il vino che da esso si produceva fu il primo ad assurgere a notorietà internazionale. Basti pensare che la viticoltura californiana nacque grazie alla coltivazione delle prime barbatelle di uva barbera che gli emigranti piemontesi si portarono dietro. E fu quasi certamente proprio negli Stati Uniti che i primi grandi protagonisti del boom della vitivinicoltura castelvenerese, quasi tutti emigranti di ritorno, conobbero la fama di questo vino. La richiesta dei vini Barbera era tale che in tutta Italia si diffuse anche la pratica dei vini Barberati, che prevedeva la fermentazione di uve di diverse varietà sulle vinacce di barbera. Questi vini spuntavano un prezzo che era leggermente inferiore alla Barbera fina, ma ben più alto degli altri Vini Rossi fini da pasto. Una pratica molto utilizzata anche in Campania. Ne troviamo traccia nel museo di Mastroberardino ad Atripalda, dove tra i documenti riferiti agli Anni ’20 del secolo scorso colpisce un depliant in cui si annoverava un vino Barberato tra i prodotti di punta della storica azienda, insieme al Taurasi, al Laceno e pochi altri vini. In una pubblicazione del 1903, descrittiva delle attività delle Stazioni sperimentali agrarie del Regno, si cita unBarberato prodotto nel territorio di Monte di Procida, per la cui produzione si impiegavano uve aglianico, san gennaro, tintiglia e pignolato. La scomparsa del nome camaiola e l’affermarsi di un vino chiamato Barbera, nelle cantine castelveneresi si verificarono contemporaneamente, intrecciandosi con tutte queste articolate vicende. Fu così che un nome locale finì nel dimenticatoio per fare posto ad un altro, altisonante, di fama planetaria.
La consapevolezza della differenza
Nel 2001, Antonella Monaco e Michele Manzo per primi evidenziarono che la varietà coltivata nella Valle Telesina e riconosciuta come “Barbera del Sannio” nulla avesse a che vedere con la varietà originaria del Piemonte. Presto arriveranno altri studi, basati sull’identificazione genetica delle varietà di viti, a confermare quello che era da sempre risaputo, vale a dire che l’uva erroneamente chiamata “barbera del Sannio” è tutt’altra cosa rispetto alla barbera del Monferrato. Ovviamente è quest’ultima la varietà che troviamo iscritta – con il Codice n. 19 – al Registro nazionale delle varietà di viti. E non poteva essere altrimenti, visto che le prime testimonianze di un vino sannita chiamato Barbera risalgono al secondo decennio del Novecento, mentre il nome della varietà piemontese lo troviamo citato per la prima volta in un documento catastale del 1512 del Comune di Chieri (nei pressi di Torino). La scienza – con i suoi studi sul DNA – ci ha anche detto che il vitigno camaiola oltre ad essere differente dal vitigno piemontese è anche distante geneticamente dal patrimonio ampelografico campano, costituendo una varietà unica, vale a dire non accostabile a nessun altro vitigno coltivato al mondo. Proprio come il nome camaiola, di cui oltre alla testimonianza della coltivazione nel territorio telesino – titernino non si trova altra traccia nello scenario della produzione vitivinicola mondiale. Da queste certezze ha tratto linfa la relazione storica contenuta nel ricco dossier che il Consorzio Sannio ha presentato all’attenzione del Ministero delle Politiche Agricole per la richiesta dell’iscrizione del vitigno camaiola al citato Registro. Un nome unico, legato a questo territorio e a coloro che ne hanno fatto una terra di viticoltura eletta. Un nome, dunque, non inventato dal nulla, né tantomeno imposto, come qualche poco accorto osservatore potrebbe pensare. Un nome che risorge, dunque, ritornando ad indicare un vitigno le cui caratteristiche agronomiche costituiscono armi essenziali per affrontare le nuove sfide, a cominciare da quelle imposte dal cambiamento climatico. Un vitigno dalle grandi potenzialità enologiche, da cui nascono vini che sono vini di grande piacevolezza, ma non per questo banali e facili. La camaiola – come la barbera la declinazione è al femminile – è un vino moderno, perché leggero e bevibile, godibile. Un vino al tempo stesso antico, per il suo essere profondamente radicato al territorio e a varie tecniche di vinificazione, gelosamente custodite dai produttori che hanno abitato e abitano questo territorio.
Le potenzialità ed il contributo della ricerca
Il 17 giugno, nella cornice del teatro comunale all’aperto del centro storico di Castelvenere, è stato presentato il progetto ‘Indigena – Sannio Camaiola’, che mira a rafforzare e consolidare le reti relazionali tra i soggetti del sistema della conoscenza e a promuovere la diffusione dell’innovazione nella filiera vitivinicola del territorio, selezionando, tra i vitigni nativi dell’area, proprio la camaiola, adatto a una viticoltura intelligente e sostenibile, tutelando e valorizzando la biodiversità locale. L’iniziativa, finanziata dal Gal Alto Tammaro nell’ambito del Psr Campania 2014-2020, prevede una serie di studi sulla caratterizzazione genetico – molecolare delle accessioni di Camaiola, sulla valutazione del potenziale enologico delle uve e sulla selezione di microrganismi meglio adattati al vitigno, sull’analisi dello scenario competitivo e sullo sviluppo di strategie di valorizzazione. Coinvolge diverse aziende del territorio, storiche produttrici di questa varietà: le castelveneresi Ca’Stelle (soggetto capofila), vitivinicola Anna Bosco, azienda agricola Scompiglio e La Vinicola del Sannio; la laurentina Antica Masseria A’ Canc’llera; le faicchiane La Vinicola del Titerno e Terre Di Leone. Al fianco dell’Associazione temporanea di scopo siglata da queste cantine – che ha affidato la direzione scientifica del progetto a Nicola Matarazzo – c’è il Dipartimento di Agraria di Portici dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’.